Shh. Mi tieni per mano;
dolce m’accompagni sull’aspro sentiero
erto di pericoli, colmo di spine, profumato
dall’acre odore d’acerbi frutti di bosco.
Un lampone colora la neve, bianca.
Una macchia di sangue scuro che impregna
la pelliccia del bosco. Mi chiedo cosa sarei ora
se tu un tempo non fossi stata, tenendomi per mano.
venerdì 6 maggio 2011
domenica 6 marzo 2011
Welcome to the jungle
Welcome to the jungle
We got fun 'n' games
We got everything you want
Honey we know the names
Viaggiare a tutta velocità sulla Torino Savona alle due e mezza del mattino, con il vento nei capelli e una bottiglia di vodka incuneata tra le ginocchia, non ha assolutamente prezzo.
Il sedere sul poggia testa e le all star che inzaccherano il sedile in pelle della decappottabile mentre “guns ‘n’ roses” all’apice del loro splendore ti frustano con l’amorevole violenza delle loro voci dandoti il benvenuto in questa maledetta giungla d’asfalto e tu, da bravo deficiente, alzi le braccia e mostri alla notte un bel paio di corna mentre qualche sporadico lampione ti acceca comparendo nel buio ogni volta che minacci di cedere all’abbraccio del sonno.
Non stai guidando, puoi a ben vedere fare lo sconsiderato mentre qualcuno al tuo fianco ha la sfortuna di dover sentire le zaffate di alcool che il tuo alito emana, miste ai residui di marlboro e ganja che hanno ancora il potere di eccitarti i sensi.
Ti scappano un vaffanculo e un grugnito che ha il sapore di una bestemmia quando qualche guidatore davanti a voi accende gli abbaglianti, forse ignaro della vostra presenza o forse con la volontà muta di sfidarvi ad una gara di velocità per sconfiggere la noia di un viaggio solitario verso casa, scappando dalle braccia di una puttana di marciapiede che gli ha offerto l’avventura di una notte e che lui ha malincuore rifiutato; non per fedeltà ma per mancanza di fondi: la crisi vale per tutti.
Sghignazzi e alla cieca colpisci la spalla del tuo amico, del tuo compagno, dello sfigato che ancora tiene il volante col capo un po’ ciondoloni, a tratti inconsapevole di avere sulle spalle non solo la propria vita ma anche la tua.
Lo inciti con voce un po’ impastata a premere quel piede – quel cazzo di piede! – sull’acceleratore ed a mettersi un po’ di pepe in culo per far vedere a quel tipo – quel cazzone di un tipo – il significato della parola scheggia.
Pregusti già la vittoria, la Heinken gelata che potrai stappare all’arrivo e la soddisfazione di aver dato una sistemata a quel pazzo che credeva di poter battere te ed il tuo amico.
Non lo vedi il tir, eh?
Così come non lo vede il tuo degno compare che minaccia addirittura di russare con la fronte appoggiata sul volante scuro, il naso schiacciato dalla posizione scomoda e le palpebre pesanti, il sonno annidato tra le ciglia che non gli dà tregua. La (forza di) gravità gli trascina a forza la testa sul clacson che storpia impietoso l’adrenalinica schitarrata di Slash e lui si sveglia, spaesato, riempiendosi gli occhi con la targa dell’enorme camion che ormai incombe su di voi.
L’ennesima imprecazione ti muore in gola e l’unico, brusco movimento che il tuo corpo registra è quello dell’auto sotto di te che sterza bruscamente; non ti sfiora l’idea che quel figlio di puttana che ti è seduto accanto potrebbe cavarsela con solo qualche osso rotto.
Riesci solo a concepire il pensiero che forse, dopotutto, la cintura di sicurezza avresti potuto metterla.
You know where you are
You're in the jungle baby
You're gonna die
In the jungle!
__________________________________________________________________
Vi eravamo mancati io e il mio cinismo, lo so.
martedì 17 agosto 2010
quando la neccessità aguzza l'ingegno
Marconi guardò l’ora con un impeto di frustrazione, desiderando ardentemente che l’antica lancetta dell’altrettanto antico orologio potesse scorrere più in fretta
Mancavano soltanto cinque minuti all’agognato week-end di riposo.
Una timida scampanellata lo scosse, e la porta del negozio si aprì, rivelando due figure in procinto di entrare.
La prima, preceduta da una zaffata di veleno ipnotico firmato Dior e annunciata dal ticchettio di un paio di tacchi dodici magistralmente calzati, apparteneva ad una ragazza di una ventina d’anni con un seno florido, esaltato dalla profondità dello scollo dell’abito nero che lasciava scoperta gran parte delle lunghe gambe abbronzate. La accompagnava un uomo distinto piuttosto in là con gli anni in abito scuro ed elegante, una stilografica nel taschino della camicia e una stempiatura ormai evidente. Le aveva aperto la porta e in quel momento le porgeva il braccio, galante.
Il gioielliere si chiese se per caso potesse essere suo padre, ma subito strozzò l’interrogativo in favore di una più adeguata professionalità; quindi si schiarì la voce, chiuse di scatto il libro contabile e sfoderò un sorriso affabile, alzandosi in piedi dietro il bancone.
“Buonasera.”
“Buonasera!” Notò come la voce della ragazza fosse esaltata, euforica, ma lo avrebbe ricordato solo in seguito.
“A lei. – L’uomo aveva, invece, un timbro roco, vissuto, e lo inchiodò con gli occhi scuri, addirittura leggermente infossati a causa dell’età avanzata. – può aiutarci?”
“Sarà un piacere, mi dica.”
“Cerchiamo un bracciale.. Diamanti. E’ un regalo.”
La mano libera dell’uomo corse al braccio della ragazza, accarezzandolo con una sorta di possessiva e calcolata distrazione.
Ben presto, un intero espositore di anelli e bracciali di notevole valore, sottolineato dai discreti e mirati complimenti di Marconi, era stato portato all’attenzione dei due.
“Voglio questo.”
La biondina sembrava sapere il fatto suo mentre con una lunga unghia laccata di rosso fiammante picchiettava contro il vetro, annuendo con occhi luccicanti.
“Quanto, per quello?”
“Quindicimila euro.”
L’uomo mise mano alla tasca dell’elegante giacca scura, ne trasse fuori un libretto degli assegni dalle fruscianti pagine azzurrine e lo appoggiò con delicatezza sul pianale di vetro del bancone, per poter recuperare la stilografica nera dalle rifiniture dorate.
Firmò senza battere ciglio, scrivendo la cifra con altrettanta serietà.
“Le lascerò l’assegno, lei potrò verificare lunedì mattina se è coperto presso la mia banca e la mia compagna, nel pomeriggio, verrà a ritirare il bracciale. Le sembra ragionevole?” Non aveva esitato nello strappare l’assegno, né nell’allungarglielo con gesto rigido, deciso.
Marconi aveva fame, e la proposta gli sembrava ragionevole.
Annuì, accomodante, digitando in fretta un codice nel registratore di cassa per riporre l’assegno al sicuro, bloccato insieme ad altri da una graffa.
“Arrivederci.”
Li osservò andarsene con interesse, lui basso e un po’ tarchiato e la sua compagna alta e ancheggiante. Si chiede cosa potessero condividere oltre al letto.
____________________________________________________________________
“Buongiorno, sono l’uomo che venerdì sera è passato da lei per trattare dell’acquisto di un bracciale di diamanti, venerdì sera – Marconi riconobbe all’istante la voce strascicata del vecchio, e si accigliò – volevo solo avvisarla che non è necessario che telefoni in banca per verificare la copertura dell’assegno poiché, sono in grado di dirglielo io sin da ora, non posseggo neanche un terzo di quei soldi.
Volevo ringraziarla, però, perché questo week-end è stato senz’altro il migliore della mia vita.”
Marconi intuì che l’uomo, nel registrare tale messaggio nella sua segreteria telefonica domenica sera, stava sorridendo.
Mancavano soltanto cinque minuti all’agognato week-end di riposo.
Una timida scampanellata lo scosse, e la porta del negozio si aprì, rivelando due figure in procinto di entrare.
La prima, preceduta da una zaffata di veleno ipnotico firmato Dior e annunciata dal ticchettio di un paio di tacchi dodici magistralmente calzati, apparteneva ad una ragazza di una ventina d’anni con un seno florido, esaltato dalla profondità dello scollo dell’abito nero che lasciava scoperta gran parte delle lunghe gambe abbronzate. La accompagnava un uomo distinto piuttosto in là con gli anni in abito scuro ed elegante, una stilografica nel taschino della camicia e una stempiatura ormai evidente. Le aveva aperto la porta e in quel momento le porgeva il braccio, galante.
Il gioielliere si chiese se per caso potesse essere suo padre, ma subito strozzò l’interrogativo in favore di una più adeguata professionalità; quindi si schiarì la voce, chiuse di scatto il libro contabile e sfoderò un sorriso affabile, alzandosi in piedi dietro il bancone.
“Buonasera.”
“Buonasera!” Notò come la voce della ragazza fosse esaltata, euforica, ma lo avrebbe ricordato solo in seguito.
“A lei. – L’uomo aveva, invece, un timbro roco, vissuto, e lo inchiodò con gli occhi scuri, addirittura leggermente infossati a causa dell’età avanzata. – può aiutarci?”
“Sarà un piacere, mi dica.”
“Cerchiamo un bracciale.. Diamanti. E’ un regalo.”
La mano libera dell’uomo corse al braccio della ragazza, accarezzandolo con una sorta di possessiva e calcolata distrazione.
Ben presto, un intero espositore di anelli e bracciali di notevole valore, sottolineato dai discreti e mirati complimenti di Marconi, era stato portato all’attenzione dei due.
“Voglio questo.”
La biondina sembrava sapere il fatto suo mentre con una lunga unghia laccata di rosso fiammante picchiettava contro il vetro, annuendo con occhi luccicanti.
“Quanto, per quello?”
“Quindicimila euro.”
L’uomo mise mano alla tasca dell’elegante giacca scura, ne trasse fuori un libretto degli assegni dalle fruscianti pagine azzurrine e lo appoggiò con delicatezza sul pianale di vetro del bancone, per poter recuperare la stilografica nera dalle rifiniture dorate.
Firmò senza battere ciglio, scrivendo la cifra con altrettanta serietà.
“Le lascerò l’assegno, lei potrò verificare lunedì mattina se è coperto presso la mia banca e la mia compagna, nel pomeriggio, verrà a ritirare il bracciale. Le sembra ragionevole?” Non aveva esitato nello strappare l’assegno, né nell’allungarglielo con gesto rigido, deciso.
Marconi aveva fame, e la proposta gli sembrava ragionevole.
Annuì, accomodante, digitando in fretta un codice nel registratore di cassa per riporre l’assegno al sicuro, bloccato insieme ad altri da una graffa.
“Arrivederci.”
Li osservò andarsene con interesse, lui basso e un po’ tarchiato e la sua compagna alta e ancheggiante. Si chiede cosa potessero condividere oltre al letto.
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“Buongiorno, sono l’uomo che venerdì sera è passato da lei per trattare dell’acquisto di un bracciale di diamanti, venerdì sera – Marconi riconobbe all’istante la voce strascicata del vecchio, e si accigliò – volevo solo avvisarla che non è necessario che telefoni in banca per verificare la copertura dell’assegno poiché, sono in grado di dirglielo io sin da ora, non posseggo neanche un terzo di quei soldi.
Volevo ringraziarla, però, perché questo week-end è stato senz’altro il migliore della mia vita.”
Marconi intuì che l’uomo, nel registrare tale messaggio nella sua segreteria telefonica domenica sera, stava sorridendo.
giovedì 5 agosto 2010
2 agosto.
sono giorni bui, la mente è in tempesta.
qualcosa ha sollevato un polverone di pensieri, e ora chi le placa più queste nubi dense di angoscia?
Quattro giorni fa era il 2 agosto.
Trent'anni e quattro giorni fa, alle diecieventicinque di mattina, scoppiava una bomba nella Stazione Centrale di Bologna.
Ho visto il foro nel pavimento, lo hanno lasciato. E la lapide.
In piazza c'era un concerto commemorativo, ho provato a sentirne un pezzetto. (in tutta onestà l'insieme mi pareva non dissimile ad un cd sui canti delle balene che ha mio padre, ma de gustibus..)
E' stato angosciante. Papà dice che è giusto che lo sia, perché serve a noi per ricordare.
Ma io penso che noi dovremmo essere i primi a ricordare, senza aiuti; che se è un concerto ad aprirci gli occhi e a suggerirci "ehi, 30 anni fa sono morte 85 persone", allora una secchiata d'acqua sarebbe più opportuna.
Mia madre avrebbe dovuto prendere quel treno.
Sbagliò orario e, ignara ed in anticipo, salì sul precedente.
_________________________________________________
Ora più che mai comincio a rendermi conto dell'anormalità della mia famiglia.
E' facile vedere normalità dove ci sono, invece, solo abitudine e routine.
La malinconia è una brutta malattia.
Ma gli adulti non hanno mai voglia di arrendersi, alzare le mani e viver qualche giorno di pace? Di tranquillità?
Sempre a contestare, discutere, arrabbiarsi, litigare.
Annegano l'animo nelle pretese, nei rimpianti e nei rimorsi.
Muoiono lentamente vittima delle loro stesse pretese, delle loro lamentele. dei loro caratteracci.
qualcosa ha sollevato un polverone di pensieri, e ora chi le placa più queste nubi dense di angoscia?
Quattro giorni fa era il 2 agosto.
Trent'anni e quattro giorni fa, alle diecieventicinque di mattina, scoppiava una bomba nella Stazione Centrale di Bologna.
Ho visto il foro nel pavimento, lo hanno lasciato. E la lapide.
In piazza c'era un concerto commemorativo, ho provato a sentirne un pezzetto. (in tutta onestà l'insieme mi pareva non dissimile ad un cd sui canti delle balene che ha mio padre, ma de gustibus..)
E' stato angosciante. Papà dice che è giusto che lo sia, perché serve a noi per ricordare.
Ma io penso che noi dovremmo essere i primi a ricordare, senza aiuti; che se è un concerto ad aprirci gli occhi e a suggerirci "ehi, 30 anni fa sono morte 85 persone", allora una secchiata d'acqua sarebbe più opportuna.
Mia madre avrebbe dovuto prendere quel treno.
Sbagliò orario e, ignara ed in anticipo, salì sul precedente.
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Ora più che mai comincio a rendermi conto dell'anormalità della mia famiglia.
E' facile vedere normalità dove ci sono, invece, solo abitudine e routine.
La malinconia è una brutta malattia.
Ma gli adulti non hanno mai voglia di arrendersi, alzare le mani e viver qualche giorno di pace? Di tranquillità?
Sempre a contestare, discutere, arrabbiarsi, litigare.
Annegano l'animo nelle pretese, nei rimpianti e nei rimorsi.
Muoiono lentamente vittima delle loro stesse pretese, delle loro lamentele. dei loro caratteracci.
[...]
Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio,
chi non si lascia aiutare
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante.
[...]
Martha Madeiros
martedì 3 agosto 2010
sabato 17 aprile 2010
Primavera è per tutti
Una finestra è sempre una finestra, che appartenga ad un grattacielo o ad una casupola in riva al mare.
Forse cambiano la vista e i sentimenti di chi sbircia da dietro le tende, ma una finestra è sempre una finestra: uno spiraglio del mondo esterno che ci illude con un’offerta di libertà che non otterremo mai veramente.
Siamo troppo schiavi della routine, della sicurezza delle nostre vite per anche solo pensare di ricominciare da zero, di cambiare.
Sei diventato un filosofo da quando non hai altro da fare, ma non te ne accorgi neanche, troppo occupato a dare un’occhiata al cielo che va rischiarandosi, un’alba acerba e stinta che invade lentamente la tua angusta, sconfortante cella.
Oggi è un giorno speciale. Avrebbe dovuto esserlo, perlomeno, perché tuo figlio compie sei anni. Tu però non festeggerai con lui.
Ti gratti il mento, le dita affondato nella barba sfatta soddisfacendo il prurito crescente di malavoglia, con distratta inquietudine, rotta da un improvviso e lieve bussare alla porta stagna che amplifica fastidiosamente il rumore; eppure sei sull’attenti, perché quegli amebe bestiali dei carcerieri quella delicatezza di gestualità te la mostrano giusto in cartolina, e forse nemmeno lì.
‘Davvero qui c’è il mio papà?’
La voce giovane, fresca e screziata di velata innocenza ha un effetto peggiore di quello di un elettroshock e per la fretta di alzarti quasi crolli per terra, inciampando nell’aria e nelle stringhe slacciate degli anfibi logori e sporchi, gli stessi da sei mesi, i piedi che non sembrano avere voglia di infilare un passo dopo il precedente, evidentemente scarsamente vogliosi di collaborare.
Con un cigolio l’uscio si apre e un caschetto biondo platino e liscio fa capolino da dietro lo stipite, due occhi sgranati per lo stupore che ti inchiodano impietosamente, un bel sorriso sulle labbra sottili che riempie le gote, gonfiando i lineamenti morbidi di quel viso che credevi avresti fatto in tempo a dimenticare prima di rivederlo.
‘Ciao papà.’
Non ci riesci a parlare, un groppo enorme ti riempie la gola castrando qualsivoglia espressione di gioia tu potresti volere regalargli. Allarghi le braccia, a mo’ di invito, ma tuo figlio rifiuta in silenzio, frapponendo tra sé stesso ed il tuo corpo un pacchetto incartato male ma con grande impegno.
Lo scarti febbrilmente, ansioso di cogliere i segni della crescita del tuo bambino, della tua gioia, e quando ti rigiri un cartone di succo d’arancia tra le mani non capisci.
‘Tutti a menarsela col portarti delle arance.. Ho pensato che lo spremiagrumi non lo avresti trovato qui.’
Il suo candore ti intenerisce e ti gonfia d’orgoglio, la dimostrazione che il peggiore degli uomini possa dare vita al miracolo più bello potrebbe anche commuoverti.
Tu non la vedi, ma anche la guardia immobile e impassibile sulla porta soffoca un sorriso che tradisce l’apparente incapacità di provare sentimenti – allora un cuore lo ha anche lei!
Annuisci piano, flebilmente, azzardando un colpo di tosse che sembra più il lamento di un orso ferito. Taci di colpo, desiderando di avere almeno cambiato la tuta arancione che porta gli aloni di qualche sudata di troppo, inzaccherata da ogni tipo di cibo – se di ciò si può parlare – che ti sia mai stato servito in questo postaccio.
‘Cosa.. cosa ci fai qua?’
Non riesci a bofonchiare nient’altro, e il tuo tono basso e rauco spaventa persino te stesso. Lo vedi abbassare gli occhi, irrigidirsi e forse trattenere qualche lacrima.
‘E’ il mio compleanno, la mamma ha detto che potevo. E poi sono io l’uomo di casa adesso.’
Tua moglie. Anzi, la tua ex moglie.
E’ un capitolo che non brucia più così tanto; non come lui in ogni modo.
E’ deluso dalla tua reazione, e si vede; le tue mani stringono spasmodicamente il cartone di succo e i pollici vi affondano impietosamente contro, ammaccandolo con discrezione.
‘Adesso devo andare. Mi aspetta.’
Qualcosa si spezza, sai che ora lo hai perso davvero. Ti si avvicina lentamente, con circospezione, e la sua presenza sembra portare un po’ di luce nella stanza cupa, smorta, oltre che un irrigidimento dei muscoli alla guardia sulla porta.
Senti un palmo piccolo e fresco accarezzarti la guancia barbuta e bollente.
Senti una sorta di caldo languore allo stomaco – innamorato della vita che scappa?
Senti il sorriso ancora prima di vederlo sbocciare sulle sue labbra di rosa, complice e cospiratore.
‘Tanto lo so che non è stata colpa tua.’
E fugge via, timido come la brezza d’estate che tarderà altri tre mesi a rinfrescare il tuo sonno, perché oggi è l’Equinozio di Primavera.
Lei non ti ha incolpata almeno.
Primavera è per tutti.
Forse cambiano la vista e i sentimenti di chi sbircia da dietro le tende, ma una finestra è sempre una finestra: uno spiraglio del mondo esterno che ci illude con un’offerta di libertà che non otterremo mai veramente.
Siamo troppo schiavi della routine, della sicurezza delle nostre vite per anche solo pensare di ricominciare da zero, di cambiare.
Sei diventato un filosofo da quando non hai altro da fare, ma non te ne accorgi neanche, troppo occupato a dare un’occhiata al cielo che va rischiarandosi, un’alba acerba e stinta che invade lentamente la tua angusta, sconfortante cella.
Oggi è un giorno speciale. Avrebbe dovuto esserlo, perlomeno, perché tuo figlio compie sei anni. Tu però non festeggerai con lui.
Ti gratti il mento, le dita affondato nella barba sfatta soddisfacendo il prurito crescente di malavoglia, con distratta inquietudine, rotta da un improvviso e lieve bussare alla porta stagna che amplifica fastidiosamente il rumore; eppure sei sull’attenti, perché quegli amebe bestiali dei carcerieri quella delicatezza di gestualità te la mostrano giusto in cartolina, e forse nemmeno lì.
‘Davvero qui c’è il mio papà?’
La voce giovane, fresca e screziata di velata innocenza ha un effetto peggiore di quello di un elettroshock e per la fretta di alzarti quasi crolli per terra, inciampando nell’aria e nelle stringhe slacciate degli anfibi logori e sporchi, gli stessi da sei mesi, i piedi che non sembrano avere voglia di infilare un passo dopo il precedente, evidentemente scarsamente vogliosi di collaborare.
Con un cigolio l’uscio si apre e un caschetto biondo platino e liscio fa capolino da dietro lo stipite, due occhi sgranati per lo stupore che ti inchiodano impietosamente, un bel sorriso sulle labbra sottili che riempie le gote, gonfiando i lineamenti morbidi di quel viso che credevi avresti fatto in tempo a dimenticare prima di rivederlo.
‘Ciao papà.’
Non ci riesci a parlare, un groppo enorme ti riempie la gola castrando qualsivoglia espressione di gioia tu potresti volere regalargli. Allarghi le braccia, a mo’ di invito, ma tuo figlio rifiuta in silenzio, frapponendo tra sé stesso ed il tuo corpo un pacchetto incartato male ma con grande impegno.
Lo scarti febbrilmente, ansioso di cogliere i segni della crescita del tuo bambino, della tua gioia, e quando ti rigiri un cartone di succo d’arancia tra le mani non capisci.
‘Tutti a menarsela col portarti delle arance.. Ho pensato che lo spremiagrumi non lo avresti trovato qui.’
Il suo candore ti intenerisce e ti gonfia d’orgoglio, la dimostrazione che il peggiore degli uomini possa dare vita al miracolo più bello potrebbe anche commuoverti.
Tu non la vedi, ma anche la guardia immobile e impassibile sulla porta soffoca un sorriso che tradisce l’apparente incapacità di provare sentimenti – allora un cuore lo ha anche lei!
Annuisci piano, flebilmente, azzardando un colpo di tosse che sembra più il lamento di un orso ferito. Taci di colpo, desiderando di avere almeno cambiato la tuta arancione che porta gli aloni di qualche sudata di troppo, inzaccherata da ogni tipo di cibo – se di ciò si può parlare – che ti sia mai stato servito in questo postaccio.
‘Cosa.. cosa ci fai qua?’
Non riesci a bofonchiare nient’altro, e il tuo tono basso e rauco spaventa persino te stesso. Lo vedi abbassare gli occhi, irrigidirsi e forse trattenere qualche lacrima.
‘E’ il mio compleanno, la mamma ha detto che potevo. E poi sono io l’uomo di casa adesso.’
Tua moglie. Anzi, la tua ex moglie.
E’ un capitolo che non brucia più così tanto; non come lui in ogni modo.
E’ deluso dalla tua reazione, e si vede; le tue mani stringono spasmodicamente il cartone di succo e i pollici vi affondano impietosamente contro, ammaccandolo con discrezione.
‘Adesso devo andare. Mi aspetta.’
Qualcosa si spezza, sai che ora lo hai perso davvero. Ti si avvicina lentamente, con circospezione, e la sua presenza sembra portare un po’ di luce nella stanza cupa, smorta, oltre che un irrigidimento dei muscoli alla guardia sulla porta.
Senti un palmo piccolo e fresco accarezzarti la guancia barbuta e bollente.
Senti una sorta di caldo languore allo stomaco – innamorato della vita che scappa?
Senti il sorriso ancora prima di vederlo sbocciare sulle sue labbra di rosa, complice e cospiratore.
‘Tanto lo so che non è stata colpa tua.’
E fugge via, timido come la brezza d’estate che tarderà altri tre mesi a rinfrescare il tuo sonno, perché oggi è l’Equinozio di Primavera.
Lei non ti ha incolpata almeno.
Primavera è per tutti.
venerdì 9 aprile 2010
.semantico.
Ascoltando Ever Dream, Nightwish
Mangiandomi.. le unghie.
Morendo per i miei pensieri.
Chiedimi chi sono,
chiedimelo te ne prego,
perché ora lo so
che questo lungo viaggio
mi ha reso degno
di essere chiamato uomo.
Dionigi, da 'Chiedimi chi sono' - A. Lavatelli e A. Vivarelli.
Semantico.
Sono nove lettere.
Sono nove,
dannatissime lettere.
Sono nove,
dannatissime,
tremendissime lettere.
Fanno male.
Ma vanno bene.
Una parola giallo canarino,
diciamo che con un po' di fantasia
è color raggiodisole.
Sissignore.
Ci vuole un po' di sole in tanto buio,
anche se preferisco la pioggia.
Semantico.
Dialogo di una coscienza e della sua ospite.
Hai scoperto chi sei?
Dovevo?
Ma va'!
Allora no.
Complimenti.
Grazie.
Scherzavo.
Io no.
Davvero non sai chi sei?
No. E' così importante?
Solo se ti interessa saperlo.
Non mi interessa.
Perfetto.
Ma..
Ma cosa?
Mi interessa sapere chi voglio essere.
C'è differenza?
Dimmelo tu.
Non lo so.
Complimenti.
Grazie.
Scherzavo.
Io no.
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